Ne ho conosciuti molti di ragazzi di valle che quotidianamente, dai loro paesi di montagna scendevano in cittá per andare a scuola. Si levavano ad ore antelucane, qualunque fosse il tempo, per salire sul pullman (allora la denominavamo “la corriera”) o sul treno che li avrebbe portati in cittá, ancora assonnati e poco ciarlieri, ma ben presto desti e sprofondati nel ripasso di quelle materie che di lí a poco avrebbero scandito il loro giornaliero cimento. Raramente si concedevano grida e schiamazzi, burle e sonore risate, ma piú spesso era un vocìo sommesso, un pacato bisbigliare che non distraeva chi, immerso nella lettura o nel completamento dei compiti assegnati abbisognava di concentrazione e silenzio. Talvolta alcuno di loro alzava il capo e sospendeva lo studio, immobile lo sguardo nel pensiero del padre che nel turno di lavoro in ferriera, in miniera, o nello scavo delle gallerie per le condotte idroelettriche, poneva a rischio la vita in una realtà ostile qual’era, a quel tempo, la Svizzera. Erano gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso ma ancora ricordo quei volti di padri e di figli ai quali l’impegno per un futuro migliore ne imponeva il dovere. Doveri tanti, diritti pochi che se pur percepiti non erano soggetto di polemiche, insulti, violenza.
La Svizzera dava sì lavoro agli italiani, ma a quale prezzo; nei bar e nei negozi delle sue cittá era esposto il cartello “vietato l’ingresso agli italiani” e nessuno osava violarlo: la polizia elvetica non scherzava e si poteva perdere il lavoro, cosí che non rimaneva che restare rintanati nei ghetti di baracche costruite per il lavoratori italiani. Alla fine del mese, ricevuta “ la paga “ alcuni rientravano in famiglia recando il denaro, altri rimanevano in loco per risparmiare sul quel gruzzolo che ogni 3-4 mesi avrebbero consegnato alle famiglie. I treni e le corriere riportavano a casa tutta un’umanitá dolente ma fiera, forse inconsapevole della incommensurabile dignitá conquistata.
Nello scavo delle gallerie per le condotte idroelettriche si consumava la vita con i polmoni aggrediti dalla silicosi, o la si perdeva per lo scoppio inatteso di una carica di esplosivo. Nei primi anni del ‘900 ( non c’erano ancora le grandi idrovore di oggi e men che meno le grandi frese per lo scavo di gallerie denominate “talpe”) il lavoro manuale dei minatori consentiva la realizzazione di condotte d’acqua molto al disotto della superficie del’invaso cosí da rendere utilizzabile una maggiore quantità dell’acqua contenuta nell’invaso stesso; ma nessuno poteva sapere con esattezza se la compattezza della roccia avrebbe consentito il raggiungimento del punto previsto per il posizionamento della carica di esplosivo onde distruggere il diaframma ed aprire la via all’acqua soprastante. Veniva cosí attivata “ l’ultima sciolta “ ovvero la squadra a rischio di minatori, molto spesso volontari, che resi euforici dalla grappa copiosamente offerta dalla direzione dei lavori e dalla doppia “paga” promessa alle relative famiglie in caso d’incidente, entravano nella galleria ad ultimare il lavoro. Non c’era scampo se la spinta idrostatica sfondava il diaframma. Un inferno d’acqua e di roccia avrebbe travolto e triturato qualunque essere o cosa si trovasse in quel budello. Quei rudi montanari, cosí come gli operai delle ferriere, le mondine delle risaie, le operaie degli opifici, furono quelli che fecero grande l’Italia.
Noi di cittá, beati rampolli di una società benestante eravamo scarsamente attenti a quelle realtà faticose e, sospinti da un relativo benessere non ci chiedevamo a qual prezzo i nostri padri l’avessero ottenuto uscendo da una guerra scellerata, ma ci arrovellavamo in discussioni politiche che di politica reale avevano assai poco ma moltissimo traspiravano immaturità e presunzione, oppure ci si trastullava nelle tante distrazioni che la cittá offriva. Si finiva cosí col trascurare lo studio ( io fui uno di quelli ) incolpando il mondo per i nostri insuccessi: ma questa è un’altra storia e forse un giorno, vergognandomi, la racconterò.
Quelli di valle, di ritorno a casa in ore serali, avevano ben altro per il capo: aiutare la madre nel riassetto della casa, nella cura dei fratelli spesso numerosi, rifornire la legnaia, accudire il bestiame di stalla e, non ultimo provvedere ai propri doveri scolastici studiando su quei libri che di anno in anno si facevano piú onerosi e ponderosi. Non avevano tempo per dissertazioni fasulle e forse non ne avevano neppure la voglia. Con invidiabile caparbia, sacrificando allo studio lusinghe ed allettamenti, onorarono i padri conseguendo diplomi e lauree nella modestia operosa del loro vivere. Taluni, abbandonati anzi tempo gli studi, entravano nel mondo del lavoro, secondi a nessuno per alacrità e spontanea responsabilità, dando e ricevendo rispetto. Da anni non vedo piú quei ragazzi di valle e tanto meno i padri che riposano nei cimiteri di montagna, ma commosso ed ammirato ne conservo, prezioso, il ricordo.
Quale disillusione oggi, guardandomi attorno. Torme di violenti e di disadattati vengono vomitate dai centri sociali annidate tra anarchici ed antagonisti ad oltranza, bande di teppisti prorompono dalle tifoserie calcistiche, tutti pronti al danneggiamento della proprietà altrui, all’offesa ed al ferimento di Carabinieri e Poliziotti ai quali uno stato fariseico, ipocrita e millantatore nega l’autodifesa ma pretende la difesa di se stesso, quasi ignorando che sotto a quelle divise ci sono padri di famiglia, uomini e donne che nel rispetto della legge e nella fedeltá allo Stato pongono il loro credo. No! Non mi piace vivere in questa realtà e con nostalgia infinita penso a “quelli di valle”, al sentimento dì rispetto che i padri coltivavano nei figli, nella modestia ma nella grande dignitá delle loro esistenze nobilitate dal lavoro.