Un breve cenno storico
Con questa poesia il Mercantini, ci descrive la disastrosa e tragica spedizione che Carlo Pisacane ( suo contemporaneo ) guidó contro il regno borbonico delle due Sicilie, e fu pesantemente sconfitto a Padula nel Salernitano.
Carlo Pisacane di nobile famiglia napoletana, figlio cadetto del duca di San Giovanni, formatosi al collegio militare della Nunziatella di Napoli come ufficiale del Genio, nominato paggio del Re, ben presto scoprì le miserie morali di corte, in netto contrasto con il suo senso dell’ordine e dell’onore, che diedero alimento al suo innato spirito ribelle. Aveva un’amante: Enrichetta di Lorenzo e fin da ragazzi progettavano di sposarsi, ma la famiglia di lei la diede in moglie a un tale Lazzari che, scoperta la tresca, lo fece pugnalare da un sicario, ma il giovane sopravvisse. I due amanti, costretti a fuggire, ripararono a Livorno ma da qui, incalzati dalla polizia borbonica del re Ferdinando, dovettero espatriare a Londra ove furono amici di Gabriele Rossetti ( padre del poeta) quindi a Parigi ove entrati nell’ambiente degli esuli conobbero illustri personalità francesi: Lamennais, Constant, Lamartine. Qui si rafforzarono i sentimenti di Pisacane sull’unitá d’Italia e, nel 1848 (aveva trent’anni) si trasferirono a Milano ancora piena di barricate antiaustriache e conobbero Carlo Cattaneo che affidò a Carlo il comando di un reparto dei “Cacciatori delle Alpi”. Poco dopo Pisacane conobbe Giuseppe Mazzini con il quale, dopo iniziali incomprensioni e dissensi politici e militari, si ritrovó esule a Lugano con altri rifugiati, ma il suo carattere aggressivo e ribelle non gli consentiva il perdurare di grandi amicizie. Scrisse i “ Saggi storico-politici-militari sull’Italia “ in quattro volumi, nei quali denunciava la debolezza delle forze rivoluzionarie italiane per la mancanza di un apporto popolare ma che, nonostante la sua giusta visione socio-politica furono pubblicati postumi. Sempre assillato da una vita politicamente concitata, iniziò nel 1856 a prospettare una rivolta nel Sud, appoggiando l’idea di Nicola Fabrizi che da quasi vent’anni ordiva congiure nel reame di Napoli. Per quest’idea trovó finalmente il consenso di Mazzini che gli mise a disposizione i fondi necessari per armare gli uomini e realizzare l’impresa, ma anche qui la sfortuna e la sventura che avevano sempre segnato la sua vita non mancarono all’appuntamento.
Il 6 Giugno 1857 Rosolino Pilo con altri rivoltosi caricò le armi su una goletta per traghettarle da Genova a Sapri e da qui a Napoli dove era atteso da Pisacane, Enrico Cosenz e Giuseppe Fanelli che stavano preparando la rivolta. La goletta di Pilo, investita da una violenta tempesta, resa pressoché ingovernabile, dovette gettare il carico a mare e rientrare sconquassata a Genova. Enrichetta, la sua fedele compagna di sempre lo scongiurò di rinunciare riprospettandogli l’assurditá dell’impresa ma Pisacane, dopo quattro giorni di colloqui con Fanelli e gli altri congiurati, sentito Mazzini, decise ugualmente di tentare. Il 24 Giugno consegnò alla giornalista inglese Jessie White il suo testamento rivelando con le sue convinzioni socialiste anche la certezza di morire. Scrisse: “ Il primo dovere di un patriota è quello di agire. Se non riesco, disprezzo profondamente l’uomo ignobile e volgare che mi condannerà. Se riesco, apprezzerò assai poco i suoi applausi. Ogni mia ricompensa la troveró nel fondo della mia coscienza.”
Il 25 Giugno 1857 con altri 24 avventurosi tra i quali Giovanni Nicotera e Gianbattista Falcone s’imbarcó sul piroscafo di linea “Cagliari” e, rinchiuso il capitano nella sua cabina, costrinse l’equipaggio a puntare su Ponza, sventolando il Tricolore, ma ancora una volta Rosolino Pilo non si presentò all’appuntamento per fornire la armi: Aveva perso l’orientamento e sbagliato la rotta. Si avvalsero delle poche armi trovate nella stiva del vapore con le quali ebbero ragione delle guardie borboniche che montavano la guardia alle prigioni. Liberarono 323 detenuti ( poche decine erano prigionieri politici, gli altri delinquenti comuni ) e li arruolarono tutti nella spedizione armandoli delle poche armi sottratte al presidio borbonico e ripartendo il giorno 28 per Sapri. Sbarcati, marciarono verso Napoli e sostarono a Padula liberando alcuni mazziniani arrestati dalla polizia. Pisacane ed i suoi non trovarono ad attenderli quelle masse rivoluzionarie che si aspettavano, bensí una popolazione ostile alla quale la polizia borbonica aveva fatto credere di essere assaltati da bande di briganti lí giunti per depredare ed uccidere. I rivoltosi furono quindi assaliti per le strade, per gli stretti vicoli, dalle finestre delle case, con una intensa fucileria che, unita a quella della sopraggiunta gendarmeria borbonica ne decretò la sconfitta. I superstiti, circa 80, tra i quali Pisacane, Nicotera, Falcone, riuscirono a fuggire a Sanza, vicino a Buonabitacolo, dove all’alba del 2 Luglio il parroco don Francesco Bianco, suonando le campane avvertì la popolazione dell’arrivo dei “briganti”. I ribelli, nuovamente aggrediti, furono massacrati con roncole, pale e falci. Pisacane e Falcone feriti ed in procinto di essere trucidati, si suicidarono con le loro pistole. Nicotera, fatto prigioniero, fu incarcerato a Salerno ma poi, grazie alla spedizione dei Mille di Garibaldi fu liberato entrando nella carriera politica come Ministro dell’Interno, con l’obbligo di mantenimento per la compagna di Carlo Pisacane, Enrichetta, dei quali adottò la figlia Silvia.
Non puó non destare grande emoziome la vicenda di Enrichetta che dopo una vita di fughe, di affanni, di stenti economici, di Carlo non le rimase nulla, nemmeno un riflesso del suo valore come saggista politico dopo la pubblicazione dei suoi scritti. Dimenticata da tutti, schedata dalla polizia come la “ druda “ di Pisacane anziché la vedova, invecchió in solitudine vivendo unicamente per sua figlia e nel ricordo del suo Carlo.
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Un breve commento
Luigi Mercantini, attraverso gli occhi e le parole di una immaginaria spigolatrice ci accompagna in un emotivo susseguirsi d’immagini, alla tragedia finale, giá preannunciata ai primi due versi. Questa giovinetta, recandosi alla spigolatura del grano, osserva incuriosita un battello che, sventolando una bandiera tricolore, brevemente si sofferma all’isola di Ponza, per poi ripartire ed ormeggiare a Sapri. Ne discendono uomini armati, rispettosi della popolazione. Qui il suo racconto s’interrompe nel singhiozzo: “Eran trecento, eran giovani e forti,/ e sono morti “. Il racconto riprende descrivendo quegli uomini chini a baciare la terra con sui volti un lacrima e un sorriso. Ella, stupita e inconscia delle motivazioni che li animano, è ignara testimone dell’avvento dell’unitá d’Italia, che in quel baciare la terra preannuncia la sua sacralità, ed in lei inizia a farsi luce sulle loro motivazioni udendoli affermare che sono venuti a morire per la loro patria. Un altro singhiozzo interrompe il racconto. Prosegue poi descrivendo l’incontro col capitano di quegli avventurosi, ammaliata dai suoi capelli biondi e dai suoi occhi azzurri, Carlo Pisacane, ed ulteriormente si commuove udendolo riconfermare la volontá di sacrificarsi per la libertá d’Italia, e tale e tanta è la sua emozione che ammutolisce incapace di formulare un pur semplice augurio nell’aiuto di Dio. Un ulteriore singhiozzo interrompe e ravviva i ricordi: “ Eran trecento….” La giovane, abbandonato il lavoro nei campi, decide di seguirli ammaliata dal loro entusiasmo e dall’onesto agire, ma ben presto é testimone di due sconfitte che quei coraggiosi, male armati, subiscono nel confronto con la gendarmeria borbonica. Nuovamente la commozione la vince rivivendo il ricordo della sconfitta finale in prossimità della Certosa di Padula. Assiste atterrita ed impotente al loro estremo sacrificio nella volontá di morire combattendo fino all’ultimo respiro ma, quando tra quei valorosi non vede piú il bel capitano “ quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro “ viene meno né piú guarda oltre. Il racconto termina nell’accorato singhiozzo finale: “ Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti”
LA SPIGOLATRICE DI SAPRI
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti !
Me ne andavo al mattino a spigolare
quando ho visto una barca in mezzo al mare;
era una barca che andava a vapore,
e alzava una bandiera tricolore.
All’isola di Ponza s’è fermata,
è stata un poco e poi si è ritornata;
s’è ritornata ed è venuta a terra :
sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti !
Sceser coll’armi e a noi non fecer guerra,
ma s’inchinaron per baciar la terra.
Ad uno ad uno li guardai nel viso:
tutti aveano una lagrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane,
ma non portaron via nemmeno un pane;
e li sentii mandare un solo grido :
“ siam venuti a morir pel nostro lido !”
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti !
Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
un giovin camminava innanzi a loro,
mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: “ Dove vai, bel capitano ? “
Guardommi, e mi rispose: “ O mia sorella,
vado a morir per la mia patria bella ! “
Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: “ V’aiuti il Signore !”
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti !
Quel giorno mi scordai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare:
due volte si scontrar con li gendarmi,
e l’una e l’altra li spogliar dell’armi.
Ma quando fur della Certosa ai muri,
s’udirono a sonar trombe e tamburi;
e tra il fumo e gli spari e le scintille
piombaron loro addosso piú di mille.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti !
Eran trecento, e non voller fuggire;
parean tre mila, e vollero morire;
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a loro correa sangue il piano.
Fin che pugnar vid’io per lor pregai,
ma a un tratto venni men, né piú guardai.
Io non vedea piú fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti !
Luigi Mercantini
fine 1857