Mi ero riproposto, anche questa volta, di nulla scrivere sulle devastazioni i dolori e le angosce che nelle Marche e in Umbria il terremoto aveva causato a quelle popolazioni. Non l’avevo fatto per il terremoto in Abruzzo nel 2009; non l’avevo fatto per il terremoto del 2012 in Emilia, non l’avevo fatto per i terremoti degli scorsi mesi nel Lazio, perché terrorizzato dall’idea di apparire o essere parte di quella schiera di retorici-piagnoni che esibiscono commozione e pietá per meglio accreditarsi negli ovattati salotti radicl-chic dei buonisti a lungo corso. Mi terrorizzava l’idea che fosse troppo facile commuoversi ed essere compartecipi di immensi dolori scrutando e raccontando gli eventi da luoghi indenni e sicuri. Ora peró la tragedia che mi devasta l’animo, l’orrenda incognita di che ne sará della mia Italia, di quale futuro sia all’orizzonte di quegli Italiani dolenti necessita di uno sfogo pur nella convinzione della vacuitá delle mie parole.
Ho lacrimato al veder crollare un borgo e un paese dopo l’altro, con i loro monumenti, le loro chiese, i loro simboli storici, con le loro abitazioni che trasudano storia e lavoro, che non sono pietra ma anima, che non sono “cose” ma identitá, rifugio, pace. Ho lacrimato nel vedere Italiani in fuga da un mostro inarrestabile, con poche misere cose frettolosamente raccolte; ho lacrimato nel vedere quella signora fuggire con il suo cagnolino stretto al seno (ultimo legame ad un nido che non c’è piú); ho lacrimato al vedere quelle suore in fuga e poi inginocchiate in preghiera, sulla piazza di Norcia verso quel loro Dio sordo e cieco, stracci umani che in loro rinserrano tutta la fragilitá dell’essere, tutta la forza di una fede che trascende mente e spirito e rende accettabile la rassegnazione. Ho lacrimato e tuttora lacrimo nel sentirmi impotente, inutile, bloccato dall’etá e dai malanni in un’esistenza che mi pesa, senza poter portare aiuto concreto a quei volti attoniti, luce in quegli sguardi che non oserei incontrare, vergognoso della mia incolumità in oltraggio alle loro ferite. Le avevo giá viste quelle espressioni in quei volti e la disperazione in quegli occhi circa 40 anni or sono quando a Gemona ed Osoppo in Friuli ed a Conza in Irpinia portai il mio modesto soccorso, ma non mi avevano cosí tanto turbato. L’azione adombrava il dolore.
Il futuro, l’dea del futuro crollata con le loro case, cancellata con le carezze agli oggetti piú cari che profumavano di Famiglia; futuro, reso vago ed incerto per la consapevolezza di non avere piú nulla perché l’orrendo mostro senza volto, peggiore della guerra perché nella guerra c’è un nemico da combattere e dal quale difendersi, ha rapito speranze, illusioni, certezze. I morti: almeno per loro non ci sará piú angoscia ma l’alito benefico della loro anima fatta pietra tra quelle rovine rinnoverá ricordi, mestizia, rimpianti che saranno, che devono essere anche potente impulso alla rinascita. Gli italiani non hanno mai ceduto alle avversitá e risorgeranno anche ora, riedificheranno le loro case, ricomporranno le loro famiglie, ricostruiranno il loro futuro. Non si puó vivere di paura, non si puó vivere solo di angosciosi ricordi.
Cosí come mai potrá dimenticarsi lo sforzo caparbio, silenzioso, eroico dei tanti che, noncuranti di pericoli, fatica e disagi, nel susseguirsi di interminabili giorni porgono il loro aiuto tra tanto dolore e desolazione, sordi alla fatica ma aperti oltre ogni limite alla solidarietá verso un’umanitá dolente. È il moto spontaneo di quell’italianitá formatasi nella storia e che nel contempo ha fatto la storia, è il retaggio di una civiltà antica che sempre ha saputo risorgere dalle sue ceneri.
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