Carducci: “CARNEVALE”

Nelle cinque scene di questa drammatica poesia, il Poeta ci vuol rappresentare la difforme realtà insita nel modo di vivere un giorno di festa, oltre i confini dell’indagine escatologica ad essa connessa, in antitetici ambienti sociali.  Infatti si noterà che mai é richiamata l’immagine di Dio, salvo che in un unico negativo accenno, ma sempre e solo domina la figura umana nella trasfigurazione metafisica della malvagità e nell’annullamento della dignità dell’essere.   Il sibilo dei venti australi nel desolato paesaggio invernale che tanto entusiasma il ricco signore  nel caldo rifugio del suo palazzo, evocandogli immagini di opere teatrali e di femminili bellezze, si contrappone veemente alla cruda realtà che in un misero tugurio incombe su madre e figlio morenti d’inedia e di gelo.   La festa di Carnevale che nelle lussuose sale patrizie profonde pregiati vini francesi, vorticose danze nelle quali la sensualità si diffonde alitando afrori, sogni di voluttà appagate nella conquista di muliebri bellezze,  si contrappone all’angosciante scena scolpita negli sguardi di madre e figlia che,  in una squallida soffitta, sgomente ed impotenti, nell’inerzia della miseria soffrono il lungo digiuno.  Il sollievo alla fame che morde giunge solo col sacrificio della giovinetta che si vende nell’umiliazione di sprezzanti sogghigni, dando accorato addio ai verginali sogni di un divenire sposa e madre.   Ma dai sepolcri nel quale s’annulla l’arrogante sfarzosità dei gaudenti, esce terribile un monito  che, negli ultimi due versi uguaglia e fors’anche supera quel “Verrà un giorno…” che nei Promessi Sposi puntando minaccioso l’indice,  Fra’  Cristoforo predice a Don Rodrigo.

“….E non sognate il dì che a l’auree porte
Batta la fame in compagnia di morte.”

CARNEVALE

 VOCE  DAI  PALAZZI

E tu,  se d’ echeggianti
Valli, o borea, dal grembo , o errando in selva
Di pin canora, o stretto in chiostri orrendi,
Voce d’ umani pianti
E sibilo di tibie e de la belva
Ferita il rugghio in mille suoni rendi,
Borea, mi piaci.  E te,  solingo verno,
Là su quell’ alpe volentieri io scerno.

Una caligin bianca
Empie l’ aër dormente, e si confonde
Co’ l pian nevato a l’ orizzonte estremo.
Tenue rosseggia e stanca
Del sol la ruota,  e tra i vapor s’ asconde,
Com’ occhio unan di sue palpèbre scemo.
E non augel,  non aura in tra le piante,
Non canto di fanciulla o viandante;

Ma il cigolar de’  rami
Sotto il peso ineguale affaticati
E del gel che si fende il suono arguto.
Canti Arcadia e richiami
Zefiro e sua dolce famiglia a i prati:
Me questo di natura altiero e muto
Orror più giova.  Deh risveglia,  Eurilla,
Nel sopito carbon lieta favilla;

Ed in me la serena
Faccia converti  e ‘ l lampeggiar del ris0
Che primavera ove si volga adduce.
A la sonante scena
Poi ne attendono i palchi, ove dal viso
De le accolte bellezze ardore e luce
E da le chiome e da l’ inserti fiori
Spira l’april che rinnovella odori.

VOCE DAI TUGURI

Oh se co’ l vivo sangue
Del mio cor ristorare io vi potessi,
Gelide membra del figliuolo mio !
Ma inerte il cor mi langue,
E irrigiditi cadono gli amplessi,
E sordo l’uomo ed è tropp’alto Iddio.
O poverello mio, la lacrimosa
gota a la gota di tua madre posa.

Non de la madre al seno
Il tuo fratel posò:  lenta su ‘l  varco
Presse gli estremi aliti suoi la neve.
Da l’ opra dura, pieno
Il dì,  seguiva sotto iniquo carco
I crudeli signor co ‘l passo breve;
E co’  l’uom congiurava a fargli guerra
L’aere implacato e la difficil terra.

Il nevischio battea
Per i laceri panni il faticoso;
E cadde, e sangiunando in van risorse.
La fame ahi gli emungea
L’ultime forze,  e al fin sul doloroso
Passo lo vinse;  e pia la morte accorse:
Poi cadavero informe e dissepolto
Lo ritornâr sotto il materno volto.

Ahimè, con miglior legge
Ripara a schermo da la gelid’ aura
Aquila in rupe e belva antica in lustre,
Ed un covil protegge
Tepido i sonni ed il vigor restaura
A i can satolli entro il palagio illustre
Qui presso,  dove de l’amor più forte,
Figlio de l’ uom,  te mena il gelo a morte.

VOCE  DALLE  SALE

Mescete,  or via mescete
La vendemmia che il Ren vecchia conserva
Di sue cento castella incoronato.
Gorgogli con le liete
Spume a lo sguardo e giù nel sen ci ferva
Quel che il sol ne’  tuoi colli ha maturato
Cui ben Giovanna e l’ Anglo un dì contese,
O di vini e d’eroi Francia cortese.

Poi ne rapisca in giro
La turbinosa danza.  Oh di pompose
E bionde e nere chiome ondeggiamenti,
Oh infocato respiro
Che al tuo si mesce, oh disvelate rose
Oh accorti a fulminare occhi fuggenti;
Mentre per mille suoni a tempra insieme
L’acuta voluttà sospira e geme !

Dolce sfiorar co ‘l labro
Le accese guance, e stringer mano a mano
E del seno sul sen le vive nevi,
E di sua sorte fabro
Ne l’orecchio deporre il caro arcano
De le sorrise parolette brevi,
E meditar cingendo il fianco a lei
De l’ espugnata forma indi  i  trofei.

Che se di nostre feste
Scorra su l’ util plebe il beneficio
E civil carità prenda augumento;
Mercé nostra,  il celeste,
Che bene e mal partì, saldo giudicio
Ha di bella pietade alleggiamento.
Noi, del nostro gioir,  beata prole,
Rallegriam l’ universo a par del sole.

VOCE  DALLE  SOFFITTE

Mancava il pan,  mancava
L’ opra sottile a reggere la vita;
E al freddo focolar  sedea  tremando,
E muta mi guardava,
Pallida mi guardava e sbigottita,
La madre:  e un lungo giorno iva passando
Che perseguiami quel silenzio e  ‘l guardo,
Quand’ io lassa discesi a passo tardo.

Piovea per la brumale
Nebbia  lividi  raggi  alta la  luna
In su ‘l trivio fangoso,  e dispariva
Dietro le nubi:  tale
Di  giovinezza il lume  in  su la bruna
Mia vita mesto fra i dolor fuggiva.
E la man tesi:  e vidimi in cospetto
Osceni ghigni;  e in cor mi scesa un detto

 Immane.  Ahi,  ma più immane
Me,  o superbi,  premea la lunga fame
E il guardo e il viso de la madre antica.
Tornai:  recai del pane:
Ma tecean del digiuno in me le brame,
Ma sollevare i gravi occhi a fatica
Sostenni;  o madre  e nel tuo sen la fronte
Ascosi e del segreto animo l’ onte

Addio,  d’un santo amore
Fantasie lacrimate,  e voi compagne
Di questa infelicissima fanciulla !
A voi rida il candore
Del vel che la pia madre adorna e piagne,
E  ‘l pensier ch’erra a studio d’una culla.
Io derelitta io scompagnata seguo
Pur la traccia de l’ ombre e mi dileguo

VOCE  DI  SOTTERRA

Taci ,  o fanciulla mesta;
Taci,  o dolente madre,  e l’affannato
Pargol raccheta ne la notte bruna.
Fiammeggia,  ecco,  la festa
Da’  vetri del palagio,  ove il beato
De la libera patria ordin  s’aduna,
E magistrati e militi tra’  suoni
E dotti ed usurier  mesce e baroni.

De’  tuoi begli anni il fiore,
O fanciulla,  intristì,  chiedendo in vano
L’ aer e l’ amor ch’ ogni animal desìa;
Ma ride in quel bagliore
Di sete e d’ or,  che con la bianca mano
La marchesa raccoglie e va giulìa
in danza.  O pianga e aspetti pur,  che importa
La prostituzïone a la tua porta.

Quel che ne la pupilla
Del figliuol tuo gelò supremo pianto
Che tu non rasciugasti,  o madre trista,
Gemma s’é fatto e  brilla
Tra il nero crin de  la banchiera.  E intanto
Il leggiadro e soave economista
A lei che ride con la rosea bocca
Sentenze e baci dissertando scocca.

Gioite, trionfate,
O felici,  o potenti,  o larve ! E quando
Il sol nuovo la plebe a l’opre caccia,
Uscite e dispiegate,
Pur la mal digerita  orgia ruttando,
Le vostre pompe a ‘  suoi digiuni in faccia;
E non sognate il dì ch’ a l’auree porte
Batta la fame in compagnia di morte.

Giosué  Carducci
22 Gennaio – 11 Febbraio  1863
 da  Levia  Gravia

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