ALLA FINE DEI GIOCHI

L’incertezza del vivere nel succedersi dei giorni, la precarietá di un benessere oggi quanto mai aleatorio, l’ansioso e furioso agitarsi di un’umanitá disincantata ed aggressiva per lo smarrimento di valori etici e morali, il logorìo psichico per le violenze subite e i diritti negati, nel lavoro, negli affetti, nelle aspettative di un quieto futuro, di una serena vecchiaia, inducono a riflessioni, talvolta involontarie ed improvvise sulla vita e, piú frequentemente, sulla morte.

Non potremo mai sapere quando avverrá.  Per alcuni, quasi mai nei piú giovani ed è un bene, il  pensiero corre sovente a quel momento attardandosi ad indagarne il mistero, quasi a voler precorrere l’ultimo istante di vita nella momentanea illusione di poter condizionare un futuro che non ci sará, di suggerire a chi rimane come guardare a quell’ombra che, rapidamente, il tempo cancellerá. In quegli istanti di realtà trasognata, di onirica astrazione nello smarrimento della mente per la certezza dell’inconoscibile, pensieri ed avvenimenti e sensazioni rivivono forse a ripercorrere il vissuto, immodificabile nel suo grigio riapparire. Taluni caparbiamente respingono l’affiorare di quell’immagine quasi ad esorcizzarne l’ineluttabilitá; talaltri ben consci della fine ormai prossima e spaventati, s’aggrappano disperatamente alla vita rendendo cosí quel transito ancor piú doloroso e sofferto; altri, sedotti da un benefico fatalismo o da una rassegnata quiescenza non si pongono interrogativo alcuno; altri ancora coscientemente accettano la morte come parte indissolubile della vita, ancorché come sollievo e liberazione da algíe fisiche o affanni esistenziali. Alcuni, ormai vinti dall’avversa fortuna e perduta ogni speranza, gravati e corrosi in un disperato esistere di mete fallite, di sentimenti negletti, di ricordi angoscianti, di quotidiana solitudine, anelano alla morte e ne provocano l’avvento.

È la vita a far male e non la morte perché solo in questa è la quiete assoluta, il distacco definitivo da tutto quello che apporta male, ossia dalla vita, è il perdersi e l’annullarsi del pensiero nell’infinita ed anonima energia dell’etere. I credenti trovano conforto nell’illusione di una vita ultraterrena premiante l’immortalitá dello spirito; gli atei rimangono soli con il proprio “ io” consapevoli dell’eterogena massa di materia in fermento che costituisce la vita, misera nei suoi limiti ma  libera nell’autodeterminazione del proprio esistere. Non è da temersi la morte ! L’esegesi mistica dei credenti la pone come tramite all’unificazione con l’Ente Supremo, con il Dio creatore; il razionalismo degli atei la pone come naturale conseguenza al deterioramento intrinseco al passare del tempo. L’umanitá, fatta schiava da terrori ancestrali connaturati alla sua genesi animale fin dalla notte dei tempi, ( il “male” inteso come entità astratta derivante e conseguente a fenomeni naturali incomprensibili o all’assalto di fiere ) teme la morte poiché in essa identifica il male che pone  fine a quel fermentare proteso all’infinito, inteso come un bene. Ecco nascere l’illusione apotropaica di un Ente benefico vittorioso sull’Ente del Male, ecco nascere le religioni che condannano e vietano l’autoeliminazione del fermento di materia identificando l’atto come emanazione dell’Ente del Male. È visione psicologicamente violenta e liberticida. Sofferenze fisiche, umilianti infermità, affannosi sentimenti troppo a lungo secretati e dissimulati dietro una consuetudinarietá ed un sorriso formale inducono, prepotenti, a quel passo estremo che un bigottismo fanatico ed un laicismo arrogante negano, di fatto negando il libero arbitrio e il diritto nella scelta dell’eutanasia.  Maledetti coloro che si arrogano il diritto di prevaricare il diritto altrui di quando, come e dove morire.  Rimane il suicidio cruento, lordo di sofferenza di disperazione e di sangue.  Estremo gesto di repulsione, di negazione ma anche di condanna per un’umanitá distratta ancorché indifferente e permeata di egoismo.

La filosofia, ( da Socrate e Platone; da Eraclito agli eleati che con Parmenide e Zenone diedero una lettura ontologica alla metafisica della morte; da Giordano Bruno che accomunava forma e materia in un tutt’uno nella vitalità del cosmo; da Tommaso Moro che introdusse la moralità dell’eutanasia tenendola ben distinta dal suicidio reputandolo indegnità; da Friedrich Nietzsche che nel suo pensiero nichilista dava un senso del tutto negativo al tema della morte e ai valori spirituali dell’Occidente ponendo la felicità sulla terra e non nei cieli; da Andreas Feuerbach che riducendo ogni fede religiosa a un fenomeno antropologico riconduceva la morte non a una fine parziale ma totale perché materia dissolta nel nulla; fino a Hans Georg Gadamer e piú ancora con Edgar Nahoum – o Morin – che a seguito di ricerca filosofica e antropologica sul tema della morte riscontravano nel comune sentire della società moderna la volontà di obnubilare quella “ terribile fatalità biologica “ ) la filosofia, dicevo, ha nei millenni indagato ed elucubrato in ogni direzione, spirituale, psicologica, biologica, il tema della morte.

Nella piú cupa disperazione, talvolta, solo il pensiero degli affetti piú cari, di chi ci ha dato la vita, puó fermare la mano suicida. In questa sede io non voglio addentrarmi in alcuna speculazione filosofica o avanzare nuovi improbabili teoremi ma, riallacciandomi ai primi paragrafi di questo scritto vorrei solo porre l’accento sul fascino e sull’aspetto emotivo, etico e morale , che ci perviene dalla poesia di Giovanni Pascoli che, pur nella sua esistenza tormentata da lutti, frustrazioni, fatica di vivere, nel ricordo della madre morta ritrova se stesso e la vita:

POVERO DONO                                                                            

Getta quell’arma che t’incanta. Spera
l’ultima volta. Aspetta ancora, aspetta
che il gallo canti nella cittá nera.

Il gallo canta, fuggono le larve.
Fuggirá, fuggirà la maledetta
maga che con fatali occhi t’apparve.

Verrá tua madre morta, col suo mesto
viso, col mormorìo della sua prece…
ti pregherá che tu lo serbi questo
povero dono ch’ella un dì ti fece.

                                  Giovanni Pascoli
                                      ( da Myricae )
www.cesareniluigi.it

 

 

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